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#leparolechesiamo

 

In un ambiente multietnico e interculturale come quello della scuola italiana oggi, i ragazzi si trovano a riflettere sempre più spesso su concetti come ACCOGLIENZAINTEGRAZIONE e CONVIVENZA. Soffermarsi sul significano di queste parole può aiutare a sviluppare le competenze di cittadinanza e a costruire una coscienza civile.

Per questo MONDADORI EDUCATION e il NUOVO DEVOTO-OLI propongono l’iniziativa #LEPAROLECHESIAMO  #ICITTADINICHEDIVENTIAMO, un progetto rivolto a tutte le scuole secondarie di I e II grado che invita gli studenti a scrivere un componimento su questi temi.

Gli obiettivi didattici del progetto mirano a sensibilizzare i ragazzi sui temi dell’integrazione e dell’intercultura e stimolarli all’uso del vocabolario per migliorare le competenze linguistiche, intese come varietà di registri e ricchezza lessicale. Importante per i racconti scritti dai ragazzi di questo ordine di scuola sarà anche la corretta contestualizzazione storico/geografica del racconto

Tra il 10 gennaio 2018 e il 31 marzo 2018, le scuole italiane secondarie di primo e secondo grado parteciperanno all'iniziativa che prevede la stesura di un tema che avrà come protagonisti le idee di integrazione e accoglienza.

Il concorso è suddiviso in due categorie, in base all'età delle classi partecipanti.

Nelle Scuole secondarie II grado gli studenti immagineranno una storia ambientata nel passato il cui protagonista sarà un ragazzo italiano emigrato in altri Paesi. Si potrà prendere spunto da opere note (es: romanzi o film) o da racconti di parenti e amici che abbiano vissuto l'esperienza dell'emigrazione. Anche qui si dovranno individuare 5/7 parole significative e corredarle di video o fotogallery.

Le parole, le rispettive traduzioni, le foto e i video andranno a comporre il vocabolario illustrato dell'integrazione e della convivenza della singola classe, dello specifico istituto, fino ad arrivare a formare il Nuovo Devoto-Oli dell’integrazione e della convivenza.

 

Concorso letterario “#leparolechesiamo, i cittadini che diventiamo”

La finalità del concorso “#leparolechesiamo, i cittadini che diventiamo”, bandito dalla casa editrice Mondadori nell’a.s. 2017/18, è stata quella di insegnare ai ragazzi ad usare il vocabolario, sensibilizzandoli al contempo sui temi dell’integrazione e dell’intercultura.

I partecipanti sono stati invitati a scrivere un racconto ambientato in epoche passate con protagonista un ragazzo italiano emigrato in un paese straniero, ispirato a storie note o a racconti di parenti o amici di famiglia che hanno vissuto l'esperienza dell'emigrazione, e a corredarlo di una fotogallery contenente 5 o 7 parole significative individuate nell’elaborato.

Piersanti Di Stefano, Alessia Ruscica, Lavinia Scuderi, studenti della classe 1Cs del liceo delle scienze economiche, si sono ispirati al fenomeno dell’immigrazione siciliana a Marcinelle avvenuta nel secondo dopoguerra per raccontare l’immaginaria storia di Giuseppe Campisi, uno dei figli delle vittime dell’incendio che l’8 agosto del 1956 divampò nella miniera di carbone del “Bois du Cazier”, uccidendo 262 minatori.

La produzione dell’elaborato è stata preceduta da un’ampia documentazione costituita da articoli, interviste, saggi, documentari sul contesto storico,  il “viaggio della speranza”, le condizioni di vita nelle baracche e nelle miniere di carbone del Belgio.

Nel racconto frammenti poetici di Lu trenu di lu suli di Ignazio Buttitta sono interposti fra le diverse sequenze narrative, il cui stile è ora descrittivo, evocativo, incisivo e spezzato, mimetico.

Sulla scelta dell’argomento e sull’acquisizione da parte degli studenti delle competenze di cittadinanza attiva, si rimanda ad alcune significative osservazioni di Paolo Di Stefano, tratte da un articolo pubblicato su Il Corriere della sera.

Che cosa rimane di tutto ciò nella memoria degli italiani? La «catastròfa» è la prima grande tragedia dell’Italia repubblicana: una tragedia europea, perché quel carbone sarebbe servito a risollevare le sorti non solo dell’Italia ma dell’Europa del dopoguerra. Quel giorno morirono uomini di 12 nazionalità diverse (gli italiani furono i più numerosi). Rimane ben poco. Qualche rievocazione per gli anniversari. Cosa ne sanno i giovani di quel che eravamo non due secoli ma sessant’anni fa (nel 1965 altri 56 operai italiani sarebbero morti a Mattmark, in Svizzera, per il crollo di una diga)? Che cosa ne sanno del razzismo di cui erano vittime gli italiani («Né cani né italiani» era il divieto appeso sulle porte dei locali pubblici in Belgio)? È cambiato tutto. Abbiamo vissuto il boom economico mentre ancora si emigrava in Svizzera e in Germania per fare lavori pericolosi. Nelle scuole bisognerebbe rendere obbligatorio il capitolo: «Emigrazione italiana», nelle famiglie bisognerebbe parlare anche del nostro passato doloroso. Per educare i nostri figli a guardare con occhi più consapevoli alle emigrazioni degli altri, quelle che oggi dobbiamo «subire». Esercitare la memoria, individuale e collettiva, a futura memoria”.

                                                                                 Prof.ssa Annamaria Di Carlo

 

 

Prefazione

Il nostro racconto è ispirato al fenomeno dell’immigrazione siciliana a Marcinelle avvenuta nel secondo dopoguerra. La voce narrante è quella di uno dei figli delle vittime dell’incendio che l’8 agosto del 1956 divampò nella miniera di carbone del “Bois du Cazier”, uccidendo 262 minatori. Il personaggio di Giuseppe Campisi è frutto della nostra fantasia; attraverso la sua storia ci siamo immedesimati nel dramma di tanti connazionali sradicati dalla propria terra nella speranza di un riscatto sociale.

Crediamo che le fiamme di quell’incendio debbano essere alimentate dalla memoria delle nuove generazioni, perché da esse giungono al nostro presente echi di voci che ci chiedono  di non essere dimenticate.

 

Quando la vita umana valeva meno di un pezzo di carbone

Della mia terra ricordo, al momento della partenza,  il sole che riscalda la pelle e la brucia nelle afose serate d’estate; i giochi infantili nei cortili di Ortigia, tra i panni profumati di lavanda stesi ad asciugare al vento caldo; l’azzurro  mare di Sicilia che all’orizzonte diventa cielo.

Poi le lacrime di mio padre e di mia madre, gli abbracci soffocanti dei miei nonni, mentre noi, con le nostre valige di cartone, saliamo su quel treno che ci porterà lontano. In un paese che non è la nostra terra e di cui non saremo mai figli. E ricordo, per riflesso, le mie lacrime, la fine di un’infanzia che nessuno mi avrebbe più restituito.

Addio compagni di scuola, addio maestra Rosa. Prometto che imparerò quella poesia dialettale di cui dimenticavo le parole, perché “Pippuccio, la lingua siciliana è la nostra storia. Un popolo senza storia non ha futuro”.

Un populu,
diventa poviru e servu,
quannu ci arrobbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.

I.Buttitta, Lingua e dialetto

 

Immagini sbiadite che trattengo nella memoria, volti dai contorni sfumati, colori e profumi della mia Sicilia. Chi nasce isola non può vivere lontano dall’acqua e lentamente muore nell’angusto spazio della terraferma. L’insularità è la condizione esistenziale di ogni migrante che lascia la sua isola e, come Ulisse, si ammala di nostomania.

Pellegrino del mare, se da lungi trai i flutti

Vedi brillare il fuoco dell’Etna, i lini tutti

Spalanca al vento, e corri! Quivi è l’eterno riso:

approda a queste spiagge, è questo il Paradiso

(Ettore Romagnoli, Il carro di Dioniso)

 

Quando il treno fu caricato sul traghetto, il rumore dei ferri e delle lamiere provocarono un sussulto nel mio piccolo cuore. Pensavo agli amici di tante avventure, quelli con cui, dopo le tempeste, andavo a catturare con le mani i pesciolini prigionieri nelle pozze d’acqua salata, sulla scogliera del molo Sant’Antonio. Adesso io,  Saro, Pippo e Ninetto siamo come quei pesci, che non possono più tornare in mare aperto, saltare fuori da quelle pozze, perché il mare si è ritirato e ci ha lasciato qui prigionieri.

Io interrogavo  gli altri bambini che, come me, sembravano sperduti in quella nave che ci aveva inghiottito tutti per sempre; nessuno sapeva cosa avremmo trovato al nostro arrivo, speranza e sogni di una vita migliore si mescolavano alla paura dell’ignoto. Avevo sette anni, le ginocchia sbucciate e vestiti troppo larghi per il mio esile corpo. Quando il traghetto approdò a Villa San Giovanni, il treno riprese il suo  lunghissimo viaggio.

Qualcuno disse che  il viaggio sembrava una deportazione, come quella degli ebrei che non fecero mai più ritorno. Qualcuno rispose che questo pensiero “portava male”. Nelle soste altri migranti salivano sui vagoni. Ciascuno con la sua storia, ciascuno con la sua speranza. Eravamo tutti italiani,  ma io avevo l’impressione di trovarmi in una terra di nessuno: dialetti diversi si confondevano fra di loro in una babele di lingue che restavano estranee una all’altra.

Fui colpito dall’esile figura di un uomo senza età. La voce era giovanile, ma il volto era solcato da rughe profondissime. Gli occhi neri e vivaci, le mani gesticolanti in modo concitato. Aveva letto i manifesti rosa tappezzati sulle mura della sua città: “vantaggi speciali, salari, ferie, carbone gratuito”. E aveva ascoltato il canto delle sirene: Marcinelle, il paese della cuccagna! Ma su quei manifesti sulle condizioni di lavoro nessuna parola.

A quelle parole il volto incupito di mia madre si illuminò. Avremmo avuto una casa tutta nostra. Con il giardino, vero, Turi? Ci coltiverò le rose, rose rosse e bianche, e margherite. Pianterò un mandorlo, come quelli che fioriscono in primavera.

Mio padre, però, rimaneva in silenzio. Di parole, in verità, non ne aveva mai sprecate. Quando andava nei campi all’alba nessuno lo aveva mai sentito aprire bocca, né quando tornava al tramonto con la schiena curva e le mani tremanti. A Siracusa tutti conoscevano Turi Campisi, Mastro Bestia, come il padre di Malpelo, che faticava quanto una bestia da soma. Anche in quel viaggio mio padre non sprecò parole.

Una tana la sò casa,

quattru ossa la muggheri;

e la fami lu circava

cu li carti di l’usceri.

(I.Buttitta, Lu trenu di lu suli)

 

23 giugno 1946. L’ Italia aveva firmato con il Belgio il fatidico accordo bilaterale ‘’minatori-carbone’’:  l’una aveva necessità di materie prime, l’altro di manodopera a basso costo disposta a scendere sotto terra. La nostra nazione  inviò per prima i suoi uomini in Belgio. L’Italia, la grande madre che ha sempre a cuore il destino dei suoi figli.

In fuga dalla povertà migliaia di giovani italiani,  con il miraggio di una vita migliore, partirono da ogni regione del nostro paese verso le miniere belghe.

Partiti dall’Italia per farsi una minuscola faticatissima fortuna e imprigionati per l’eternità dalla terra straniera che doveva dar loro, a costo di incredibili calvari, un modestissimo avvenire“.9 agosto 1956, Dino Buzzati, Il Corriere.

All’arrivo a Bruxelles, ci fecero scendere non nella stazione dei passeggeri, ma nello scalo merci. Uomini come  merce. Vite umane che valevano meno di pezzi di carbone.

Dopo averci caricati su un camion sporco di carbone, ci  trasferirono in campi desolati. Scoprimmo poi che si trattava dei campi di concentramento della seconda guerra mondiale. Forse era davvero una deportazione.

Mi sentivo privo di volontà, trasportato da un vento che spingeva verso un luogo sconosciuto. A Marcinelle, località belga del comune di Charleroi, vi erano cantine  come dormitori comuni, baracche di legno di colore verde-sporco e lamiera:  un’enorme baraccopoli in cui le dimore non avevano alcuna identità; come la gente che le avrebbe abitate. I bagni e le fontane per l’acqua si trovavano all’esterno degli alloggi e dovevano essere condivisi. Nella nostra baracca c’era una sola stanza e una tenda separava i letti dalla cucina. Non c’era acqua né bagno e faceva freddo.

La prima parola  che imparai fu ‘’macaronìs’’. Maccheroni, sporchi, crumiri. Parole che ci marchiavano l’anima. Per la gente del luogo noi eravamo “i fascisti”, il nemico vinto. Per i minatori “gente che viene a rubarci il lavoro”.  “Ni chiens, ni italiens”: no cani, no italiani, ripetevano i cartelli dei locali dei distretti minerari. In quella lingua così incomprensibile per noi. Una lingua che sentivamo ostile. Nelle baracche invece si confondevano fra loro “parole polacche, tedesche, greche, francesi, fiamminghe, spagnole”.

Quanto tempo rimasi rinchiuso nella nostra baracca di legno, come gli altri bambini?

Il sole e il cielo azzurro e la  luce calda e il mare profumato ed io che rincorrevo i granchi e raccoglievo le patelle della scogliera, per mia nonna Lucia, per la zuppa che avrebbe cucinato: questo divenne il mio sogno ricorrente.

Voglio tornare a casa mia, questo luogo sporco e nero, buio, mi ingoia.

Partire? Sì, quando? Come?

Noi italiani, malgrado tutto, restavamo uniti, una comunità per la quale una nascita, un matrimonio, l’arrivo di un connazionale diventavano occasioni di festa. Il suono della fisarmonica ci accompagnava  nel freddo dell’inverno e sembrava dare voce alla nostra comune nostalgia.

Alcune donne, durante l’assenza dei mariti, si recavano alla collina degli scarti del carbone per raccoglierne furtivamente pezzi che poi rivendevano.

Le condizioni dei minatori erano durissime e il lavoro massacrante : la temperatura oscillava tra i 40 e i 50 gradi; le attrezzature erano arretrate e la terra scottava. Non era previsto alcun addestramento. Nessuna tuta di amianto di protezione. In quel luogo disumano due ascensori portavano giù nel ventre della terra a trenta chilometri orari  i minatori, ammassati l’uno all’altro, come carne da macello. Mio padre diceva di sentire nei suoi incubi i rumori infernali di quelle gabbie. I minatori erano indicati con dei numeri, come gli ebrei nei campi di concentramento.

Si lavorava sotto la minaccia continua di frane, esplosioni per il grisou, silicosi.

Molte persone a causa delle difficili condizioni di lavoro, dopo un anno, decisero di tornare in Italia, ma a mio padre, il cui volto sempre più scavato aveva ormai lo stesso colore della miniera, questo pensiero non passò mai per la testa. Era disposto a spaccarsi la schiena in quell’inferno pur di portare a casa un tozzo di pane.

Un giorno un uomo gli disse: “Passate le prime settimane di incertezze e di paura, ci si butta anima e corpo per raggiungere ad ogni costo le medie più alte. Meglio rischiare tutto e mettere da parte un po’ di soldi in poco tempo piuttosto che languire qui tutta la vita. Se non muori sotto una frana puoi sempre sperare di tornare in Italia senza tubercolosi e senza la silicosi”.

Li mineri di lu Belgiu,

li mineri di carbuni:

sunnu niri niri niri

comu sangu di draguni.

(I.Buttitta, Lu trenu di lu suli)

 

8 agosto 1956. Un giorno come tutti gli altri. Qui a Marcinelle il tempo è come sospeso. Papà lavora già da un pezzo nella miniera di carbone di Bois du Cazier. Poi quell’incidente. E quel terrificante fumo nero che vediamo alzarsi dai pozzi. Le strutture di legno e l’assenza di idranti fanno sì che l’incendio si propaghi inarrestabile.

Mia madre mi prende per mano e insieme corriamo verso le cancellate della miniera. Su di esse vi sono ancora i vestiti appesi dei minatori scesi in profondità. Lei tenta disperatamente di aprire il cancello, dice che papà la chiama, che sente la sua voce. Poi alcuni uomini la trattengono e le fanno coraggio

Donne, uomini, bambini accorrono preoccupati per i loro mariti, per i loro figli. Donne strette in sofferenti abbracci, bambini con i grandi occhi rossi e lucidi per il pianto.  Ora mia madre prega. Prega per mio padre, per la sua incolumità, e per gli altri minatori.

I soccorsi arrivano tardi, alle otto e cinquattotto  arriva la prima squadra. Sono solo un  bambino, ma intuisco la gravità della situazione: mio padre è in pericolo. Stringo forte la mano di mia madre, a volerle dare sostegno. Sento il mio cuore incominciare a battere veloce e brividi di paura attraversare  il mio corpo. Voglio solo riabbracciare mio padre, ancora una volta. La sua immagine compare nella mia mente. I suoi capelli folti e neri, le sue grandi e forti mani, che tante volte mi avevano abbracciato, e i suoi piccoli e profondissimi occhi. Smetto  di piangere. Devo essere forte, papà vorrebbe questo da me. Rinchiuso tra le viscere d'una terra estranea, so che lui pensa a noi, lo sento. La veglia delle donne prosegue per giorni”.

Poi giunge  la notizia: «Tutti cadaveri». «Notte di attesa, notte di immenso dolore: gente del Nord e del Sud, gente di ogni regione d’Italia: tutto il dramma della nostra emigrazione è spietatamente sintetizzato sul ciglio di questa strada. Unanime il cordoglio degli italiani per i loro connazionali.», scrisse l’inviato del Corriere della sera a Marcinelle.

Dei 275 minatori solo 13 di essi sopravvissero. Delle 262 vittime 136 erano italiane. Tra di esse vi era anche mio padre. Quel fatidico giorno si portò via non solo il  mio amato papà ma anche la mia innocenza.

La radio continua a trasmettere: «I primi cadaveri riportati alla superficie dalle squadre di soccorso appartengono a nostri connazionali emigrati dalla Sicilia. Ecco il primo elenco delle vittime. Natale Fatta, di Riesi provincia di Caltanissetta Francesco Tilotta, di Villarosa provincia di Enna Alfio Calabrò, di Agrigento Salvatore Scordu... ». Salvatore Campisi…..

Un vicino, uno di quelli che chiamavano muso nero mio padre, si presentò nella nostra baracca per le condoglianze.

“La comunità italiana del Belgio ha pagato con il sangue il prezzo del suo riconoscimento” scrisse Patrick Baragiola sul quotidiano Le Monde.

Nessuna autorità italiana si presentò sul luogo: chissà se quel maledetto patto del diavolo pesò mai sulla coscienza di qualcuno di loro.

Durante tutto il processo ci furono “dei buchi”; il minatore ritenuto responsabile del disastro, Antonio Iannetta, si trasferì in Canada. In appello ci fu un unico condannato, l’ingegnere capo Calicis. Per i giudici di Charleroi si trattò di un "errore involontario".

Nell’immaginario dei testimoni quell’errore costato vite umane divenne la  “catastròfa”, un parola che è un misto di francese e di italiano. Ma la rimozione sottile di quella  tragedia si respira  tuttora in quei luoghi, tra la gente di quella terra, che non sa, che non vuole sapere.

A chi oggi mi chiede se tornerò mai a Marcinelle rispondo:

“Tu ci torneresti nel posto in cui è morto tuo padre bruciato vivo nel fondo di una miniera?».

 

Liceo Corbino di Siracusa, classe 1^ C del Liceo delle Scienze Economiche

Alunni:

Piersanti Di Stefano

Alessia Ruscica

Lavinia Scuderi

Prof.ssa:

Annamaria Di Carlo

 

 

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